S.Apollonia AntiCONtemporaneo 2014

Anticontemporaneo

Paolo Carradori

 

Lang l’eclettico

Provate ad indagare tra le opere di David Lang (1957), scoprirete tutto e il contrario di tutto. Da sonorità metalliche, forti, con chiare influenze rock ad eleganti musiche per film, da suoni inudibili a paesaggi tranquilli, quasi immobili. In tutte le ambientazioni si percepisce personalità, scrittura brillante, profonda spiritualità. Lang è l’autore scelto da L’Homme Armé per aprire la settima edizione – in quattro appuntamenti – della rassegna AntiCONtemporaneo. Testimonial azzeccatissimo per chi, come la prestigiosa istituzione musicale fiorentina, coniuga mirabilmente antico e contemporaneo. Nell’austero spazio dell’Auditorium di Sant’Apollonia del compositore americano in programma lavori “cameristici” e l’opera The little match girl passion.

Emanuele Torquati al pianoforte e Francesco Dillon al violoncello offrono un set di notevole tensione. Wed (1992) e This was written by hand (2003) per piano solo: due perle rare. Musica obliqua, la prima, spigolosa, dall’andamento inquieto e ondulatorio si sviluppa tra consonanze e dissonanze, accelerazioni, grappoli di suono che cercano una via d’uscita. La seconda si apre con una frase coinvolgente, ripetuta. Poi l’atmosfera si incrina, la melodia evapora, si frantuma in schegge astratte, isolate e vaghe. Torquati usa la tastiera come lo scalpello dello scultore, scolpisce suoni in una prosciugata gestualità.

Word to come (2003) per violoncello solo e 8 violoncelli preregistrati è un festival visionario. L’attacco è lirico, poi più serrato si incrocia con le tracce registrate. Collisioni pericolose, gioco degli specchi, accumulazione sonora, labirinto di densità orchestrali. Dillon con suono brillante e urbano ne attraversa i territori difficili, curioso, aperto ad ogni rischio in un costante rigore emotivo. Bitter herbs per violoncello e pianoforte è un lavoro rigido, meno aperto. Attacco duro, frasi spezzate, percussive, violente che si rincorrono. Cluster nevrotici, archetto che vola. I due si ritrovano in brevi, cupi unisoni finali. L’altra faccia di Lang.

Diciamocelo, La piccola fiammiferaia di H. C. Andersen è una appiccicosa fiaba ottocentesca. Oltre la trama, tutte le sue parti – l’orrore e la bellezza – sono costantemente pervase del loro opposto. Così la legge Lang trasfigurandola in parabola cristiana e allora non c’è di meglio che usare la forma passione, di bachiana memoria, per raccontarla e commentarla. Anche il testo è di Lang, che cita Andersen come il Vangelo secondo Matteo.

Questa in estrema sintesi la genesi di The little match girl passion (2007) per quattro voci e percussioni. Ne viene fuori un’opera fascinosa quanto macchinosa. Fascinosa negli incastri vocali, nel respiro musicale tra mottetto e opera pop. Macchinosa, anche un po’ stiracchiata, nella ricerca di forzate riflessioni filosofiche su sofferenza e speranza. Ottimo l’ensemble de L’Homme Harmé che, impegnato anche con le percussioni, ne dà una lettura sognante e misteriosa.

Dal loop a Scarlatti

Serata zeppa di sorprese la terza. Questa volta siamo nel refettorio, avvolti dalle casse di un impianto multicanali. L’allestimento è di Tempo Reale che ci regala una ricca e preziosa documentazione della ricerca musicale negli anni ’50, quando l’avvento dei sistemi di registrazione e riproduzione del suono mutò in modo radicale l’orizzonte creativo del compositore. Otto brevi brani – che vanno dal’53 al ’58 – e profumano di archetipo, di laboratorio artigianale, assolutamente da contestualizzare ma che trasmettono ancora fascino nella loro sana ingenuità rivoluzionaria. Siamo agli albori della musica elettronica ma un confronto tra le “scuole” (Parigi, Colonia, Milano e New York) scatta automatico.

Allora non si può che rilevare come gli americani (Brown con Octet 1 e Feldman con Intersection) già dimostrino, in un ribollente astrattismo urbano, una maggiore libertà linguistica, che contrasta con la necessità che i compositori europei ancora esprimono nella ricerca di strutture, di forma e senso musicale (su tutti Berio con Mutazioni e Ligeti con Artikulation).

Si torna nell’Auditorium per un gran finale dedicato ad uno strumento modernissimo: il clavicembalo. Francesco Corti ci guida nell’ esplorazione di uno strumento sul quale aleggiano troppi luoghi comuni e preconcetti. Sonate di Domenico Scarlatti e Joseph Haydn si mischiano con lavori di György Ligeti degli anni ’70. Un turbinio di suoni dove perdiamo l’orientamento. Di Scarlatti rispolveriamo la modernità stupefacente, nell’esplorazione della tecnica strumentale, nelle note ribattute, nella rapidità esecutiva, virtuosismo ardito sempre al servizio della sorpresa creativa.

Di Haydn la narrazione limpida, la leggerezza, l’eleganza dei contrasti, le fughe, elementi che nella forma sonata assumono un carattere unico, preveggente. Ligeti sul clavicembalo è travolgente. Continuum è un brano dal carattere estraniante, con la sua lunga linea minimale disturbata da interferenze disegna un caleidoscopio dalla tinte scure. Hungarian Rock su un elastico ostinato di bassi ricorda atmosfere progressive ma anche pop: il clavicembalo che non ti aspetti. Grazie anche alla limpida interpretazione di Corti, che tra rigore e libertà, affronta con talento notevoli difficoltà tecniche trasportandole come valore estetico tutto immerso nella musica.

Da Alfapiù – Quotidiano in rete

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